Più controlli sotto il sole

Self tanning spray and tubesI controlli sui cosmetici aumentano in risposta alle richieste del nuovo Regolamento e, come nel caso dei solari, alle esigenze espresse dal mercato. L’export dei solari richiede particolare preparazione e investimenti a causa delle legislazioni non armonizzate sui mercati internazionali. Stefano Todeschi è laureato in Scienze Biologiche e specialista in patologia clinica. Dopo una decennale esperienza nel settore della tossicologia umana fonda con altri soci i laboratori Abich, nel 2002. È inoltre docente presso il Master in Scienza dei prodotti cosmetici e dermatologici dell’Università di Camerino. Con lui parliamo di controlli nei cosmetici, con particolare riferimento ai prodotti solari.

Come si è evoluto il c oncetto di controllo nel settore cosmetico?
Il Regolamento 1223/2009 ha introdotto prescrizioni stringenti in materia di sicurezza, dal punto di vista delle pratiche di buona fabbricazione (GMP) e tossicologico. Controlli sulle materie prime in ingresso e controlli microbiologici nelle diverse fasi del processo produttivo sono oggi più comuni e applicati di anni fa. I metodi alternativi in vitro sono entrati nella routine per le valutazioni tossicologiche. Per la parte microbiologica, è richiesta inoltre una verifica dell’efficacia del sistema conservante, il «challenge test», a cui tutti hanno dovuto allinearsi. Anche i dati di stabilità sono divenuti fondamentali da valutarsi all’atto della stesura del Product information file (PIF) e della valutazione tossicologica (CPSR- Cosmetic product safety report). In merito alla tossicologia, la predisposizione di una linea guida che basa la valutazione tossicologica in gran parte sui dati di NOAEL (No observed adverse effect level) delle materie prime ha posto notevoli difficoltà perché questo dato, ottenuto da test di tossicità sub cronica/cronica nell’animale, non è disponibile per molti ingredienti e difficilmente sarà ottenibile a breve visto l’animal testing ban. Quindi si supplisce alla scarsità di dati tossicologici con una valutazione più approfondita. Il valutatore della sicurezza, infatti, ha in capo una notevole responsabilità. La tendenza è eseguire un maggior numero di test sul prodotto finito, ai fini di dimostrarne l’innocuità: test in vitro, qualitativi e quantitativi, e patch test su volontari sani con diversi protocolli, per provare l’assenza di irritazione ed effetti allergici. Questo sforzo fornisce un quadro più completo e tranquillizzante, anche se i costi lievitano. Molti laboratori a cui i produttori cosmetici esternalizzano questi servizi hanno visto un’impennata delle richieste nel 2013. È evidente che le aziende cosmetiche stanno investendo per essere sicure e tutelate in merito alla sicurezza dei prodotti, anche a fronte di un mercato che, almeno in Italia, non cresce.

Stefano Todeschi.
Stefano Todeschi.

Il Regolamento ha avuto un impatto non piccolo…
Queste valutazioni, per molti aspetti in linea con quelle dei dispositivi medici, costituiscono una mole di lavoro notevole per un prodotto a elevato turn over di mercato come il cosmetico. Alcuni produttori cercano di valorizzare questi sforzi sviluppando e registrando prodotti, che potrebbero essere commercializzati come cosmetici, nella categoria dei dispositivi medici per uso topico, valorizzandone gli aspetti terapeutici. Con il Regolamento, il mercato ha fatto un bel salto qualitativo. Rimangono alcuni aspetti non del tutto chiari, soprattutto nelle aree di confine con altre legislazioni. Per esempio, l’implementazione delle GMP cosmetiche secondo la norma UNI EN ISO 22716 potrebbe non essere sufficiente per le aziende cosmetiche che producono anche dispositivi medici, per le quali la norma di riferimento diventa la UNI CEI EN ISO 13485, per la fabbricazione e di dispositivi medici. Inoltre, alcune aree del cosmetico rimangono di fatto autoregolamentate in virtù di linee guida sviluppate all’interno del settore. È il caso dei prodotti solari, dove la Raccomandazione Europea 2006/647/CEE non ha ancora attuazione di legge, ma ha molti riscontri nelle emanazioni di metodi dell’allora COLIPA (ora Cosmetics Europe) e poi dell’ISO. Si tratta di norme seguite piuttosto rigidamente dai produttori, ma pur sempre volontarie.

Come sta cambiando l’approccio al controllo nei solari?
I filtri solari hanno un profilo tossicologico ben investigato e documentato. Inoltre quelli di nuova generazione sono sviluppati per avere una biocompatibilità elevata e dimostrata. Con il Regolamento rallenterà però l’immissione in commercio di nuovi filtri, per le difficoltà a definirne la tossicologia in regime di animal testing ban. Riguardo al prodotto finito, si sta osservando l’utilizzo sempre più esteso delle prove di stabilità accelerate a diverse temperature e di foto-stabilità, per poter apporre una scadenza di prodotto più lunga e verificare il permanere dell’attività protettiva. Per quanto non obbligatoria dal punto di vista regolatorio per i prodotti con durata maggiore di 30 mesi, la data di scadenza è un plus molto richiesto per i solari, soprattutto nel canale farmacia.La nostra esperienza è che, in generale, le aziende cosmetiche tralasciano di effettuare, nelle prove di stabilità dei solari, il titolo dei filtri spettrofotometrico mediante metodi spettrofotometrici o HPLC-UV, per mancanza di queste facility interne o delle specifiche competenze analitiche o più banalmente per contenere i costi. Questo contrasta con l’esigenza del mercato di avere prodotti più stabili e sicuri, una richiesta a cui rispondono soprattutto le corporation o i produttori focalizzati sul canale farmacia, mentre altri produttori, che omettono di fare queste prove di routine, forniscono meno garanzie di stabilità.

Quali difficoltà comporta la mancanza di armonizzazione legislativa a livello internazionale in materia di prodotti solari?
La mancanza quasi totale di armonizzazione delle metodologie di valutazione dei solari è un vero blocco alla loro esportazione per le aziende Europee di medie dimensioni, mentre tocca solo marginalmente le grandi multinazionali. Al momento, i diversi mercati -USA, Canada, Australia e mercati asiatici- richiedono modalità specifiche di valutazione e di etichettatura, differenti da quelle richieste in UE, una situazione «a macchia di leopardo» che richiede conoscenze regolatorie specifiche e investimenti rilevanti. Basti pensare, per esempio, che molti mercati asiatici (tra cui Cina, Giappone e Sud Corea) rifiutano i test in vitro per valutare la protezione UVA. Per questi mercati il metodo di riferimento è stato il PPD, sviluppato in Giappone, fino alla fine del 2011, quando è stata pubblicata la norma ISO 24442: 2011, che fornisce uno standard per i test in vivo equivalente al PPD e accettato anche in Europa.

Il problema è anche di etichettatura?
È una difficoltà anche maggiore. Infatti, se fare un test in più è mediamente affrontabile per le aziende, i risultati di questo test devono trovare spazio in specifiche indicazioni in etichetta e questo comporta creare per ciascun mercato una linea nuova. Il simbolo «UVA cerchiato», per esempio, è utilizzato pur senza obbligo in Europa ma non nel mercato statunitense, che richiede il Broad spectrum 2011. L’ «UVA cerchiato», peraltro, non è requisito sufficiente nel mercato UK per indicare la protezione UVA, per quanto sia un mercato europeo. Infatti, il consumatore del Regno Unito ha come riferimento il cosiddetto Boots star rating system, più dettagliato dell’etichettatura seguita in Europa, data dalle linee guida Colipa, che risulta infatti piuttosto grossolana per il consumatore inglese. Per contro, per il consumatore italiano è difficile trarre informazioni dall’etichetta europea: pochi conoscono per esempio il significato di «UVA cerchiato».

Intende dire che c’è una mancanza di comunicazione?
A molti livelli. Ancora non c’è stato un impegno da parte dei giornalisti e degli addetti alla comunicazione scientifica per migliorare il livello di conoscenza del consumatore medio. Anche i farmacisti sono spesso poco informati e consapevoli del significato delle simbologie in etichetta su cosmetici e dispositivi medici. Un claim sull’etichetta dei solari, non è solo un’affermazione di marketing ma corrisponde a un test realizzato sul prodotto. Che non si riesca a valorizzarlo è un’occasione perduta, non solo per il consumatore ma anche per l’azienda che in quelle prove ha investito.

PIÙ FORMAZIONE SUL REGOLATORIO INTERNAZIONALE
La non armonizzazione delle richieste regolatorie sui solari nei diversi mercati internazionali è emblematica di come le competenze in materia di legislazione internazionale siano sempre più importanti nel settore cosmetico. Afferma Stefano Todeschi «aziende medie e ben inserite che ricevono richieste dall’estero sono spesso in difficoltà nell’ambito regolatorio specifico. Peraltro non c’è molta offerta formativa che sia focalizzata sul regolatorio cosmetico a livello di università, scuole di specialità o master. Le aziende invece avrebbero grande bisogno di figure formate sul regolatorio a livello internazionale, perché è un know how molto specialistico che spesso non possono avere internamente e che faticano a esternalizzare».

di E. Perani