Le bioplastiche possono essere derivate da materiale biologico (biobased) e/o essere biodegradabili. I due concetti vengono spesso usati come sinonimi, ma non è del tutto corretto. Le plastiche biobased sono composte da biopolimeri che derivano dalla natura, le plastiche biodegradabili sono composte da polimeri in grado di «ritornare» alla natura. In questo caso essi possono essere ottenuti da risorse rinnovabili al 100%, da risorse fossili o da una combinazione di entrambe.
Polidrossialcanoati
Oggigiorno, tra i materiali per il packaging, la plastica è uno dei più utilizzati grazie alle sue ottime caratteristiche di versatilità, flessibilità, resistenza alla degradazione e lunga durata. Queste proprietà d’altro canto determinano un elevato impatto ambientale. Tra i biopolimeri, i polidrossialcanoati (PHAs), prodotti da molti microrganismi, rappresentano un’allettante alternativa alle plastiche convenzionali perché derivano da fonti naturali rinnovabili e sono biodegradabili al 100%. La produzione delle bioplastiche a base di PHAs risulta quindi del tutto indipendente dall’industria del petrolio e dalle risorse fossili. I PHAs sono inoltre compatibili con un ampio range di applicazioni in ambito medico, farmaceutico, veterinario, nonché nel packaging di cibo e cosmetici. Il più usato dei PHAs è il poli-3-idrossi-butirrato (PHB), omopolimero lineare non ramificato con ottime proprietà di resistenza meccanica e termica, simili a quelle degli elastomeri sintetici derivati dal petrolio. Il suo impiego in ambito industriale su larga scala è tuttavia ancora limitato dagli elevati costi di produzione.
Le nanotecnologie migliorano le bioplastiche
Lo sviluppo di nuovi materiali ecocompatibili di derivazione naturale negli ultimi decenni ha fatto passi da gigante in termini di rinnovabilità, biodegradabilità (compostabilità) e ridotte emissioni di CO2. Gli svantaggi connessi ad alcune bioplastiche sono soprattutto idrofilicità e conduttività, un ridotto range di processività, basse temperature di sollecitazione e uno scarso effetto barriera. I bionanocompositi possono permettere in parte di migliorare le proprietà dei materiali e aggirare i limiti sopra elencati. Due recenti pubblicazioni hanno preso in rassegna la letteratura sull’argomento, traendo interessanti conclusioni in termini di potenzialità di questi materiali nell’impiego come materiali da imballaggio e packaging, applicabilità attuale, tossicità e sicurezza ambientale, nuove proprietà e caratteristiche biofunzionali conferibili a questi materiali. Biopolimeri ottenuti da amido, cellulosa, derivati del mais, e PHAs da batteri sono tra i più ampiamente utilizzati per la produzione di nanocompositi destinati all’imballaggio alimentare e cosmetico. Il miglioramento delle proprietà barriera dei bionanocompositi contro O2, CO2, vapore acqueo e composti aromatici avrebbe un impatto importante sull’estensione della durata di conservazione dei vari alimenti freschi e trasformati. Inoltre, la biodegradabilità dei bionanocompositi può essere incrementata attraverso la corretta scelta della matrice polimerica e nanoparticellare. Tali miglioramenti sono generalmente ottenuti con un ridotto contenuto in nanoargille (meno del 5%) rispetto ai filler convenzionali (nell’intervallo tra 10-50%). Per queste ragioni, i nanocompositi risultano essere molto più leggeri rispetto ai materiali compositi tradizionali, di conseguenza competitivi per applicazioni specifiche. Il loro utilizzo nel packaging potrà contribuire a ridurre i rifiuti di imballaggio associati a prodotti alimentari trasformati e ai cosmetici, garantendo inoltre un aumento della conservazione dei prodotti grazie al prolungamento della shelf-life. Le caratteristiche di questi materiali possono essere inoltre arricchite con l’aggiunta di ulteriori proprietà biofunzionali, come attività antimicrobiche o antiossidanti, attraverso la formazione di nanocompositi formulati con vari tipi di nanoparticelle, come nanoargille, nanoparticelle d’argento, ossidi metallici, zeolite d’argento e biopolimeri come il chitosano. Biomateriali nanocompositi arricchiti di tali proprietà funzionali possiedono un alto potenziale per lo sviluppo di tecnologie innovative nel packaging alimentare/cosmetico, come imballaggi attivi, con elevate proprietà barriera, dotati di nanosensori, indicatori di freschezza e autopulenti. Tuttavia, l’attuale livello di miglioramento non è ancora sufficiente per competere con le materie plastiche a base di petrolio. In particolare, la resistenza all’acqua dei bionanocompositi è troppo scarsa per utilizzarli come materiali da imballaggio, specialmente in condizioni ambientali di elevata umidità. Pertanto, risulta necessario un ulteriore miglioramento delle caratteristiche dei bionanocompositi, compreso lo sviluppo della formulazione ottimale per il singolo polimero e un metodo di lavorazione per ottenere le proprietà desiderate e coprire un’ampia gamma di applicazioni, nonché la riduzione dei costi di produzione dei bionanocompositi. Vi sono poi alcune problematiche ancora irrisolte connesse alla sicurezza dell’uso di nanocompositi a diretto contatto con alimenti e cosmetici. I dati scientifici circa la migrazione delle nanostrutture dei materiali di imballaggio ai prodotti contenuti all’interno sono ancora insufficienti. Le potenziali tossicità dei nanocompositi, così come la sicurezza ambientale del loro utilizzo, vanno quindi ulteriormente investigate. Ciononostante, secondo gli autori degli studi, ci sono promettenti presupposti affinché i bionanocompositi possano trovare impiego in una vasta gamma di applicazioni nell’industria alimentare, cosmetica e biomedica, come imballaggi attivi, innovativi, dotati di interessanti proprietà biofunzionali.
Bioplastiche e microrganismi
Tra i batteri più largamente utilizzati per la produzione su scala industriale di polidrossialcanoati (PHAs), biopolimeri con proprietà analoghe agli elastomeri di sintesi, si annoverano il Cupriavidus necator, Azahydromonas lata (precedentemente noto come Alcaligenes latus), Azotobacter spp., cloni ricombinanti di Escherichia coli e diverse specie appartenenti a Bacillus, Rhodococcus e Pseudomonas. In particolare, il genere batterico Bacillus è stato individuato come uno dei primi Gram positivi in grado di produrre PHB e ne sono state identificate diverse specie che presentano alti livelli di produzione, isolate in nicchie ambientali molto eterogenee, spesso caratterizzate da condizioni estreme di temperatura, pH o salinità. Un ostacolo al loro impiego nella produzione di PHB su larga scala per applicazioni industriali è rappresentato dalla fase di sporulazione del ciclo batterico, tipica dei Bacillus, che può limitare in gran misura l’accumulo del biopolimero. Analoghi fattori di stress nutritivo possono infatti indurre il batterio sia alla sporulazione che alla produzione di PHAs, che nella fisiologia del microrganismo vengono accumulati in granuli intracellulari (fig. 1) con la funzione di riserva energetica interna, utilizzabile dal batterio stesso come fonte di carbonio in caso di carenze di nutrienti.
Bibliografia
-Reddy, Vivekanandhana, Misraa, Bhatiac, Mohanty, 2013. Biobased plastics and bionanocomposites: Current status and future opportunities. Progress in Polymer Science, in press.
-Rhim, Park, Ha, 2013. Bio-nanocomposites for food packaging applications. Progress in Polymer Science, in press.
di L.Galetto – Biotecnologa