Economie di rete: un nuovo modello per l’industria

Le reti di impresa identificano accordi di collaborazione di tipo commerciale, tecnologico, industriale, finanziario, generalmente non equity, in cui le aziende mettono in comune attività e conoscenze per realizzare obiettivi strategici per migliorare la competitività. Le aziende possono appartenere a filiere diverse e non ci sono vincoli territoriali come per i distretti, che privilegiano la contiguità spaziale. Inoltre, la loro finalità è molto diversa da quella dei consorzi tradizionali, che sono reti orizzontali sorte con lo scopo di migliorare alcune condizioni di costo per l’acquisizione dei fattori produttivi (logistici, commerciali, localizzativi, di rete di acquisto), o delle associazioni temporanee di impresa, che sono aggregazioni di durata limitata su obiettivi circoscritti e non strategici. «All’interno dei contratti di rete, di recente attivazione in Italia, la collaborazione avviene su un progetto imprenditoriale di rilevanza strategica, dove il nodo cruciale rispetto ai modelli precedenti è proprio lo scambio di informazioni, conoscenze e competenze fra imprese nella condivisione e trasferimento di best practice -spiega Luciano Pilotti, ordinario del Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi presso l’Università di Milano. –Una volta realizzato il progetto, sostenuto da una appropriata rete di credito, il contratto di rete si può sciogliere ma non necessariamente terminare. Ripartendo su nuove basi e con nuovi partners, evitando di tornare a situazioni di isolamento, la collaborazione può mantenersi, anche con altri obiettivi strategici e altri progetti, in alcuni casi fino al consolidamento di alleanze di tipo proprietario».

Luciano Pilotti, ordinario del Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi presso l’Università di Milano.


Quali competenze per inserirsi nelle reti?

«Per questa evoluzione serve innanzitutto un salto culturale per uscire da una logica puramente produttiva, iniziando a concepire il prodotto come basket di competenze -considera Pilotti- che, nel caso della cosmesi, sono chimiche, biochimiche, di design, di gusto, che vanno promosse e sviluppate in modo trasversale. A questo scopo servono competenze tecnologiche, che probabilmente non mancano alle nostre PMI, ma soprattutto, di tipo relazionale e comunicativo, per favorire in primo luogo l’interazione con altre imprese e, inoltre, porsi in ascolto attivo dei mercati finali e intermedi. Sganciarsi da una cultura strettamente produttiva e produttivistica significa concepire il prodotto come portatore di benessere e di fiducia, nel cui sviluppo non si può trascurare, ad esempio, l’aspetto etico a cui il consumatore è sempre più attento, declinato nell’attenzione all’ambiente, alla responsabilità sociale ecc.». Come trasferire questi valori nei prodotti è l’oggetto dello scambio di conoscenze, anche fra concorrenti, perché tutti hanno da guadagnare da una crescita condivisa. «Servono inoltre competenze manageriali specifiche -prosegue il docente, –individuabili per esempio nei  processi e nelle capacità di creare networking per sistemi aperti, flessibili e porosi, utili al fluire rapido di nuove conoscenze. Infatti, se le capacità e le abilità dell’impresa sono sempre più distribuite lungo una filiera complessa, i manager devono avere la capacità e la preparazione per guardare al di là delle mura aziendali. Un forte freno alla capacità di crescita delle nostre imprese risiede infatti spesso nella scarsa capacità di comprendere a fondo la natura del proprio posizionamento di rete. Alle tradizionali capacità di controllo si sostituiscono per questo capacità di auto-organizzazione entro organizzazioni dove le conoscenze fluiscono rapidamente a basso costo dentro e fuori le mura aziendali, che rafforzino l’appropriabilità di innovazioni e nuovi usi e dove alla leadership vediamo sostituirsi una employeeship. La capacità collaborare e fare collaborare le risorse umane a disposizione dentro e fuori l’azienda diventa la chiave della competizione del futuro».

Promuovere l’accesso all’intelligenza collettiva

Con la legge 33/2009 l’Italia si è dotata di una normativa sui contratti di rete, recentemente aggiornata con le leggi 134/2012 e 221/2012. «Ritengo che sia nel complesso uno strumento buono -commenta Luciano Pilotti –che come sempre, se non accompagnato adeguatamente, rischia di essere inefficace. Si renderebbe necessaria, per esempio, un’attività più sistematica di promozione dello strumento nei territori, da parte delle istituzioni locali e soprattutto delle associazioni di categoria. Serve inoltre il supporto di piattaforme tecnologiche e commerciali utili alla diffusione dei potenziali di queste reti». Sono parimenti indispensabili, secondo Pilotti, strumenti finanziari più robusti rispetto a quanto possono fare le singole banche nel supportare rischio di credito e rischio imprenditoriale, che, per esempio, valutino più in profondità le potenzialità delle PMI coinvolte nelle reti. «Peraltro l’accesso al credito va certo facilitato e semplificato, soprattutto i una situazione come quella italiana in cui mancano canali alternativi come i venture capitalist o i business angels diffusi nel mondo anglosassone. Una trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in una banca per lo sviluppo sarebbe uno strumento di rafforzamento di questa evoluzione nei canali di finanziamento degli investimenti per le PMI superando, almeno in parte, i limiti tradizionali di sottocapitalizzazione. La scommessa è sostenere questa crescita, che non deve essere necessariamente di dimensioni aziendali, ma di capacità relazionali e connettive soprattutto in termini di messa a valore di un collective brain aperto e accessibile, attraverso le capacità della rete». In conclusione, lo sviluppo in rete permette ai singoli di accedere a opportunità non disponibili agendo individualmente. «L’individualismo proprietario imprenditoriale è il grande problema che questo paese dovrà superare attraverso una cultura più partecipativa -sottolinea Pilotti, -come “terza via” rispetto al modello nippo-renano da una parte e anglosassone dall’altra. Le reti e la cultura delle reti devono infine essere diffuse anche nei centri di formazione manageriale e professionale, guardando a profili di network manager che comprendano le potenzialità di rete che queste realtà possono esprimere e sappiano svilupparle entro traiettorie di medio-lungo termine».

 

di E. Perani