Le sfide per un packaging sostenibile

Paola Fabbri, docente di Scienza e Tecnologia dei Materiali presso il DICAM della Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Università di Bologna.

Come vede l’orientamento del settore cosmetico rispetto al problema di migliorare la sostenibilità del packaging?
È un settore che ha ampie potenzialità di ridurre i volumi del packaging e il ricorso a certi tipi di materiali. Siamo in una fase di transizione sui materiali, guidata soprattutto da una crescente consapevolezza del problema ambientale e sociale della gestione dei materiali plastici a fine vita d’uso. È il momento in cui bisogna rivolgersi a materiali sostenibili, che siano da materie prime rinnovabili, come le bioplastiche o le plastiche da riciclo di alta qualità, e optare per un design che porti a ridurre le confezioni. Sono tutte strade che possono richiedere studio e investimenti, quindi non sempre necessariamente a costo zero, ma il settore cosmetico è uno dei comparti che meglio di altri può assorbire i costi di questo tipo di ricerca per trarne i maggiori vantaggi.

Paola Fabbri

Su quali fronti è opportuno attivarsi?
I fronti sono tre. Innanzitutto il design: attivare campagne per una progettazione del packaging finalizzata al riuso e alla riciclabilità, riducendo anche il materiale senza comprometterne le funzioni protettive ed estetiche. Con un opportuno design, infatti, il packaging può essere altrettanto attraente con meno materiale. Serve poi testare i materiali nuovi, promuovere uno sviluppo tecnico finalizzato a capire quali sono davvero le frontiere delle bioplastiche compostabili. Non bastano le prove isolate, serve una ricerca strutturata che permetta di capire quali siano le soluzioni più idonee ai diversi prodotti cosmetici per portarle sul mercato. Entrambi questi aspetti vedono l’industria degli utilizzatori come protagonista. E poi è necessario impattare sulle politiche perché vengano create e supportate le infrastrutture necessarie a indirizzare correttamente i flussi dei materiali verso il riciclo. Serve infatti un allineamento infrastrutturale che supporti il ricorso a materiali come le bioplastiche, da un lato, e dall’altro una armonizzazione internazionale di nomenclatura e simbologia per identificare ciascun materiale in maniera univoca e facilitarne l’avvio alla corretta filiera del recupero.

Quali sono le criticità nell’industria?
È necessaria una forte campagna informativa sui tecnici dell’industria, progettisti, designer, perché i materiali innovativi devono essere sperimentati in nuovi concetti di packaging sviluppati con l’obiettivo della sostenibilità. Se non si dispone di figure aggiornate, difficilmente questi materiali arriveranno sul mercato. Serve anche una maggior conoscenza degli strumenti per confrontare oggettivamente soluzioni differenti di packaging, laddove ora ricorrono valutazioni approssimative o su criteri parziali mentre l’unico metodo validato è il LCA, che purtroppo è ben poco utilizzato. Dal diffuso approccio poco oggettivo di confronto, che oggi è ancora dominante, dipende la diffusione di materiali perfetti per il green washing ma che possiamo definire veri e propri fake dal punto di vista della sostenibilità, come ad esempio sono casi recenti di contenitori per fluidi cosmetici esclusivamente riportati come “cellulosici”, ma che sono invece di natura mista cellulosa+polimeri, una caratteristica di cui nessuno fa menzione.

La comunicazione rappresenta un ulteriore problema: quali claim mancano di trasparenza?
Un claim come “-60% di plastica” che comunica la pretesa sostenibilità di un contenitore in materiale misto cellulosa-polimeri è greenwashing, perché i due materiali di quel contenitore difficilmente potranno essere avviati a seconda vita. Nessuno nega che rispetto ad un barattolo in tutta plastica, lì ce ne sia di meno. Ma che su questa base il prodotto sia in toto più sostenibile, non è affatto detto. E invece quel claim lo dà per scontato. Un altro termine non proprio trasparente è “riciclabile”: perché tutto potenzialmente lo è ma nel concreto moltissimi materiali plastici “riciclabili” non lo sono davvero per carenze a livello di raccolta o di industria del riciclo. Perché ridurre gli impatti ambientali richiede una sostenibilità economica, tecnologica e di infrastrutture che vanno diffuse sul territorio con l’impegno di industria e pubblica amministrazione. Ma non sempre esistono tutti questi presupposti. Per questo una parte consistente della comunicazione sui temi della sostenibilità, effettuata anche in buona fede, contribuisce enormemente alla disinformazione.