Impronta ambientale: utilità nel mondo cosmetico

cura della pelleFabio Iraldo, Professore Ordinario di Management della Scuola Sant’Anna di Pisa e Condirettore del Green Economy Observatory IEFE-Università Bocconi

Come si pone lo schema PEF (Product Environmental Footprint) nel quadro delle certificazioni ambientali?
Lo schema per la valutazione dell’Impronta Ambientale dei Prodotti, come anche quello per l’Impronta Ambientale delle Organizzazioni (OEF) è stato sviluppato dal lavoro congiunto della Commissione Europea e del Joint Research Center per offrire alle organizzazioni una metodologia armonizzata di valutazione dell’impronta ambientale nel suo complesso, basata su schemi molto consolidati di Life Cycle Assessment, che consideri tutte le diverse categorie dell’impatto ambientale, evitando quindi valutazioni parziali focalizzate sono su una o poche componenti e che ne trascurano altre magari rilevanti. Calcolare, infatti, solo l’impronta di carbonio o solo l’impatto del packaging risulta una valutazione insufficiente a fornire un quadro corretto dell’impatto ambientale di un prodotto, che sia anche confrontabile con altre referenze del mercato presentate magari con connotazione ecologica perché hanno valutato aspetti diversi quali l’impronta idrica o il ridotto rilascio nell’ambiente di inquinanti ecc. Lo schema PEF tiene conto di questi e altri aspetti insieme, che è l’obiettivo del LCA, e viene promosso a livello europeo proprio per spingere le aziende a misurare l’impronta ambientale dei prodotti attraverso una metodologia robusta e di comprovata validità, che considera tutto il ciclo di vita del prodotto e quantifica gli impatti attraverso indici numerici definiti, ricomprendendo l’analisi degli aspetti produttivi del prodotto finito, delle sue componenti e del suo imballaggio nonché le loro origini nella filiera a monte, ma anche la distribuzione, la fase di utilizzo e il fine vita del prodotto, fino allo smaltimento della confezione.

In quali ambiti risulta utile?
È una certificazione che dovrebbe essere presa in considerazione da tutti coloro che ambiscono a realizzare un prodotto “green”, perché permette di quantificare l’impronta ambientale e, di conseguenza, verificare l’efficacia delle modifiche apportate ai prodotti per ridurre le diverse componenti dell’impatto sull’ambiente. È utile anche per confrontarsi con i concorrenti, ad esempio rispetto a prodotti convenzionali, meno attenti all’ambiente, oppure certificati secondo schemi meno robusti o solo parziali. Per non ricadere in operazioni solo di facciata è necessario dimostrare che il prodotto ha un impatto ambientale limitato, calcolandolo in modo corretto e completo attraverso il LCA: proprio allo scopo di aumentare la presenza sul mercato di prodotti a ridotta impronta ambientale a livello UE si promuove il ricorso allo schema PEF. È un lavoro impegnativo per l’azienda, che tuttavia può diventare un driver di competitività, sia nel B2B sia nel B2C. Si tratta infatti di una elaborazione che richiede una raccolta dati capillare, l’utilizzo di un software specializzato e l’accesso a banche dati dedicate, ma fornisce una efficace “carta di identità ambientale” del prodotto, in cui ogni voce di impatto risulta quantificata e di facile lettura.

Fabio Iraldo

Quale interesse si riscontra nelle imprese, in particolare nel mondo cosmetico?
Le aziende stanno considerando con grande interesse questa metodologia. Fino a ieri il LCA è stato avvicinato dalle grandi aziende multinazionali che da trent’anni lo utilizzano soprattutto per valutazioni interne finalizzate migliorare il prodotto dal punto di vista ambientale, per valutare le alternative nel corso dello sviluppo dei prodotti. Raramente è diventato tema di comunicazione con il consumatore. Negli ultimi tempi, anche le PMI si stanno interessando a questa metodologia e allo schema PEF, che viene adottato anche in virtù di politiche di supporto attuate in Italia e in UE volte a incentivarlo ai fini dell’ecoinnovazione. La Scuola Sant’Anna di Pisa segue diversi progetti per supportare le PMI nell’uso di questi strumenti attraverso fondi europei o regionali. Tra questi, un bando della Regione Lombardia ha coinvolto molte aziende cosmetiche, attraverso Cosmetica Italia, e della loro filiera di fornitura, dalle materie prime al packaging. In gran parte sono PMI dai comparti dello skin care, cura dei capelli e prodotti per bambini che si sono riunite in piccole aggregazioni di filiera per partecipare insieme, con l’obiettivo di valutare l’impronta ambientale dei loro prodotti.

Quali spinte che hanno acceso l’interesse di queste imprese?
Sono driver di due tipi: in primis, ricavare elementi di certezza quando puntano sul prodotto green, perché la loro scelta abbia un fondamento scientifico comprovato attraverso uno strumento riconosciuto come lo schema PEF; in secondo luogo, le forti pressioni sul tema del packaging da parte del mercato e dei fornitori. I produttori di cosmetici ricevono infatti un gran numero di proposte su nuovi materiali e strategie di imballaggio a basso impatto ambientale: bioplastiche, plastiche biodegradabili, materiali riciclati e molto altro, e desiderano avere un criterio valido per scegliere fra le tante alternative disponibili, proprio il tipo di problemi per rispondere ai quali le metodologie di LCA risultano particolarmente efficaci. Scopi al momento soprattutto tecnici; lo strumento della certificazione PEF, tuttavia, è stato concepito anche per la comunicazione al consumatore, che probabilmente arriverà in un secondo momento nelle strategie di queste aziende.

Dopo il progetto le aziende riusciranno a utilizzare queste valutazioni nella routine dello sviluppo di nuovi prodotti?
È il contratto morale che abbiamo fatto: il supporto iniziale è finalizzato all’obiettivo che il calcolo dell’impronta ambientale diventi la base per riprogettare il prodotto e per tenerlo monitorato nel tempo. Nella mia esperienza, che riguarda anche realtà industriali meno strutturate e avanzate delle imprese cosmetiche, ho constatato che queste valutazioni del ciclo di vita, quando portate nelle PMI, possono entrare a far parte della fase di design del prodotto. Nell’industria cosmetica l’interesse è risultato molto vivo: l’occasione del finanziamento regionale è stata ampiamente colta per approcciare questi metodi. Al momento, infatti, si riscontra che la barriera per le imprese ad accostare le valutazioni dell’impronta ambientale risiede proprio nell’investimento iniziale, che prevede di avvalersi di consulenti che aiutino i tecnici aziendali nella raccolta e organizzazione dei dati e nell’uso del software, a cui si aggiunge il costo del software stesso, costi che al momento soprattutto le PMI faticano ad affrontare. Non mancano tuttavia occasioni per trovare finanziamenti per questi scopi e alcune aziende innovative intraprendono questo percorso, per affrontare il quale è certamente necessaria un volontà forte, ma che, visto l’orientamento generale del mercato, può anche portare a notevoli vantaggi competitivi.

di E.Perani