Natura e sostenibilità: ben più che una tendenza

Mauro Bleve.

Dopo la laurea in Chimica e Tecnologie farmaceutiche presso l’Università di Bari, Mauro Bleve, classe 1979, lavora come ricercatore, studiando l’estrazione di principi da matrici vegetali con CO2 supercritica nell’ambito di due progetti di ricerca pre-competitiva gestiti, in collaborazione, da Pierre srl, dall’Università di Lecce e dal CNR-ISPA. Proprio in Pierre inizia a lavorare nella cosmetica, come chimico fomulatore nel laboratorio R&D, parallelamente ad altre collaborazioni come formatore. Tra il 2008 e il 2010 collabora, ancora come responsabile R&D, con Dermelle e con Lio Farmaceutici per poi passare in Oriflame Cosmetics trasferendosi a Bray, presso Dublino, sede dei laboratori di ricerca e sviluppo, dove oggi è Senior Formulation Chemist nell’area skin care.

 Quali sono le sfide nello sviluppo di prodotti destinati al canale della vendita diretta?

A parte l’attenzione all’equilibrio fra qualità e prezzo, che al momento è la priorità in tutti i canali, bisogna considerare che, nella vendita diretta, il primo approccio del consumatore con il prodotto avviene attraverso il catalogo. Questo significa che l’immagine e comunicazione di prodotto devono essere costruite con attenzione, che il posizionamento di prezzo deve essere convincente per il cliente e, soprattutto, che la qualità del prodotto deve essere tale da conquistare la sua fiducia: al momento dell’utilizzo deve soddisfare pienamente le aspettative senza lasciare spazio a delusioni. Un secondo aspetto riguarda la gamma, che deve essere il più completa possibile, dai prodotti di base a quelli unici, che prendono come riferimento il segmento prestige. L’obiettivo del formulatore è ottimizzare il rapporto qualità/prezzo, nell’ambito di un’offerta concorrenziale e con performance paragonabili o superiori alle marche più prestigiose: non si tratta di imitare i leader del mercato, ma di proporre un’alternativa valida ai prodotti di riferimento per ciascuna categoria. Questo significa lavorare a livello di ricerca e sviluppo ma anche attraverso una comunicazione che sappia trasmettere al consumatore il contenuto di qualità dei prodotti. È dunque irrinunciabile formare la forza vendita, che nel canale della vendita diretta è costituita da consumatori fidelizzati ed entusiasti.

 La disponibilità di ingredienti naturali sta davvero cambiando il cosmetico, al di là delle mode?

L’elemento della moda esiste, ancora oggi si fa spesso riferimento al naturale solo come claim di marketing. Tuttavia è sempre più frequente che le aziende si impegnino seriamente a formulare prodotti ad elevato contenuto di materie prime vegetali, così come parallelamente si osserva lo sforzo dei produttori di materie prime nella ricerca di ingredienti davvero funzionali e ottenuti con metodi innovativi. Io ho lavorato su materie prime lipofile ottenute per estrazione con CO2 supercritica, una metodologia di estrazione particolarmente efficiente che assicura una elevata purezza del prodotto, senza contaminazioni con prodotti secondari. Sono convinto che questa evoluzione porterà ad un utilizzo sempre maggiore di materie prime naturali. Si è partiti dagli attivi, ma oggi osserviamo una rilevante espansione anche nel campo degli ingredienti di base: oli, emollienti, emulsionanti, con molecole ottenute anche dalla lavorazione degli scarti delle produzioni alimentari. I produttori di materie prime stanno rispondendo appieno a questa esigenza, cogliendone le opportunità.

 Un’evoluzione accelerata anche dall’esigenza di produzioni sostenibili…

A tutti i livelli l’attenzione aumenta: si cerca di applicare il concetto base della sostenibilità, il passaggio dalla logica “dalla culla alla tomba” alla logica “dalla culla alla culla”. Questo vale sia per le materie prime sia per il cosmetico finito, sforzandosi di creare un prodotto il più possibile biodegradabile, che minimizzi gli impatti ambientali nella fase di utilizzo da parte del consumatore ma anche a livello produttivo, considerando le acque reflue delle lavorazioni, del lavaggio dei macchinari ecc. La ricerca sulle tecnologie produttive si focalizza su strategie a basso impatto ambientale, ecocompatibili ed efficienti dal punto di vista del consumo di energia, materie prime, acqua; le biotecnologie sono un emblema di questi approcci. Ormai non si tratta più della sensibilità della singola azienda, ma sempre più entra nella prassi delle produzioni: se oggi ancora la sostenibilità è vissuta come un plus, in futuro diventerà invece l’unica via percorribile per continuare a produrre, considerando che la disponibilità di risorse del pianeta è ai limiti dell’esaurimento. Conviene partire subito e orientare le aziende ad un’evoluzione per piccoli passi, e questo deve avvenire, secondo il modello europeo, anche nei paesi emergenti, in cui le legislazioni e gli approcci produttivi non sempre considerano prioritaria la sostenibilità.

 Come vede l’industria cosmetica italiana, guardandola dall’estero?

L’industria italiana è certamente un riferimento per la qualità delle sue produzioni. L’innovazione tecnologica è un cardine di questa considerazione e l’industria si sta sforzando nella collaborazione con gli istituti di ricerca pubblici su progetti finalizzati alla crescita tecnologica; sempre più spesso si arriva all’avvio di spin off come risultato di questa collaborazione: un’evoluzione molto interessante. Il limite dell’industria italiana, di cui mi rendo conto da quando sono in un paese anglosassone, è il non saper valorizzare le risorse intellettuali dei giovani. I neolaureati italiani hanno una preparazione teorica molto superiore rispetto ai pari grado esteri, nonchè un mix esplosivo di capacità e genialità che ne fanno la fortuna all’estero. In Italia però hanno difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro perché nell’industria si osserva un’incapacità di dare valore e mettere a frutto l’entusiasmo e la passione della giovane mente che, anzi, molto spesso viene mortificata, un duro prezzo per imparare l’umiltà. Eppure l’esperienza di lavoro nell’industria italiana può anche dare moltissimo, si acquisisce flessibilità e apertura mentale, perché nelle PMI italiane il dipendente è chiamato ad andare oltre la propria stretta mansione, comprendendo, tra l’altro, che non si smette mai di imparare. Nel mondo anglosassone, il giovane ricercatore è considerato una risorsa, se ne cura la crescita, la formazione e la gratificazione, sia in termini economici sia in termini di ambiente di lavoro, di considerazione e soprattutto di rispetto, ciò che troppo spesso manca nelle aziende italiane nei confronti dei giovani. È triste che questo investimento sui giovani sia carente in Italia, perché il paese spende le proprie risorse per erogare una formazione di alto livello i cui frutti vengono purtroppo raccolti altrove.

Elena Perani