Dati sì, ma senza test in vivo

La prossima revisione del REACH, che fra l’altro porterà alla registrazione di categorie di sostanze finora esentate, come i polimeri, nonché alla richiesta di ulteriori dati tossicologici sulle sostanze chimiche, suscita il timore di un incremento del ricorso ai test in vivo.

Una preoccupazione che si è risvegliata già lo scorso marzo, con la pubblicazione del Regolamento 477/2022, che aggiorna gli allegati da VI a X del REACH richiedendo, insieme a informazioni sulla caratterizzazione delle sostanze, studi su mutagenicità, tossicità, degradazione e bioaccumulo. Si applicherà a partire dal 14 ottobre, ma ha già sollevato quegli attori che richiedono uno stop deciso ai test su animali. Anche l’industria cosmetica, che per legge non può ricorrere a questo tipo di sperimentazione e molto ha investito per sviluppare valide alternative, non perde occasione per richiedere l’accettazione regolatoria delle New Approach Methodologies (NAM), come ha recentemente ribadito nel rispondere alle pubbliche consultazioni della Commissione Europea su REACH e CLP. Ne parliamo con Costanza Rovida, ricercatrice presso l’Università di Konstanz, membro di CAAT Europe (Center for Alternative to Animal Testing) e consulente REACH. 

Costanza Rovida

Regolamento 477/2022: cosa cambia nelle richieste di dati e perché ci sono preoccupazioni che le informazioni da produrre si traducano in un più consistente ricorso ai test su animali?
Le richieste del Regolamento 477/2022 rendono cogenti i suggerimenti resi noti nelle linee guida relative a questa parte. Nulla di realmente nuovo, quindi, se non un rischio di intensificazione del riscorso a test su animali. Già molte aziende si stanno muovendo in tal senso per integrare informazioni che in precedenza avevano fornito con approcci read across o supportando la valutazione con altri dati. È la conseguenza dell’atteggiamento assunto da ECHA, negli ultimi anni, per la valutazione dei dossier, con una richiesta eccessiva di nuovi test su animali, anche per aspetti su cui questo tipo di dato non aggiungeva informazioni rilevanti per definire il profilo di rischio delle sostanze. Una applicazione rigida della normativa, che non tiene conto degli orientamenti dello stesso REACH, che raccomanda il ricorso a nuovi test sugli animali solo se strettamente necessario.
L’auspicio è che l’Agenzia non adotti una interpretazione stringente delle richieste del Regolamento 477/2022, dove il test in vivo viene esplicitamente richiesto in casi che finora potevano essere giustificati con ricorso a read across e altri NAM.
Il read across è oggi l’unico modo per evitare i test in vivo per reproductive toxicity e gli altri endpoint complessi e deve essere adeguatamente giustificato, cosa che nei dossier del 2010 spesso non è avvenuta. Non c’è dubbio che, soprattutto i più datati, dovranno essere integrati, ma il ricorso massivo ai test in vivo non è comunque giustificato. Da un punto di vista strettamente scientifico, rifiutare il read across su tutta una serie di sostanze non ha senso.

Nel caso delle materie prime cosmetiche l’eventuale richiesta di test su animali rappresenta un problema…
La richiesta di test in vivo risulta in conflitto con il Regolamento Cosmetico 1223/2009, creando notevoli difficoltà nell’industria cosmetica.
Ma tanti sono i motivi che dovrebbero spingere ad accettare gli studi basati su approcci NAM, a partire dalla fondatezza scientifica: ormai è noto quanto siano profonde le differenze nella fisiologia e nelle vie metaboliche da specie a specie; inoltre, i limiti dei modelli animali sono stati evidenziati ampiamente dalla comunità scientifica. C’è un rischio elevato di condannare sostanze che hanno livelli di tossicità contenuti e, per contro, autorizzare sostanze molto pericolose per l’uomo. La mancanza di rigore scientifico dell’approccio è l’aspetto critico della richiesta di test in vivo.
Inoltre, i test in vivo hanno costi ambientali importanti, legati alla gestione degli stabulari e dei loro rifiuti, e rappresentano per le imprese un costo economico ingente, senza contribuire in modo sostanziale a rafforzare il quadro della sicurezza chimica: nessuno ne viene favorito. Gli approcci in vitro, in silico e read across, quando ben disegnati e accuratamente eseguiti, permettono di abbassare i costi degli studi di tossicità, nonostante sia necessario incrociare i risultati di diverse sperimentazioni, garantendo una elevata affidabilità.
Va poi considerato che i lunghi tempi associati allo studio su animali nonché la disponibilità dei laboratori e degli animali stessi in UE rappresentano criticità non da poco, soprattutto in relazione alle migliaia di sostanze da studiare, a cui si aggiungeranno i polimeri che in seguito alla revisione del REACH saranno assoggettati a registrazione. Lo studio di un solo endpoint complesso su una singola sostanza può durare due anni. Di conseguenza, una richiesta eccessiva di test in vivo comporta il rischio di rimanere per anni e anni senza una base di informazioni per supportare le valutazioni del rischio chimico. Al contrario, i test in vitro per lo screening degli endocrine disruptor, per fare un esempio, costano minimo dieci volte in meno e richiedono qualche mese: rendere obbligatorio questo tipo di screening di base permetterebbe di avere un quadro generale affidabile in un lasso ragionevole di tempo, con possibilità di confronto fra sostanze diverse che permetterebbe di indirizzare ulteriori studi, ove necessario, e supportare le scelte in materia di restrizioni.
Così molti stakeholder, compreso EURL-ECVAM, richiedono, nell’ambito della revisione del REACH, che venga adottato un approccio per cui sia obbligatorio in prima battuta ricorrere a NAM, come già avviene per le sperimentazioni di skin sensitization e skin irritation.

Dietro a certe rigidità, può nascondersi un timore del legislatore di non soddisfare l’opinione pubblica in tema di sicurezza?
Anche questo è un problema da gestire con una più capillare e completa informazione e con percorsi educativi fin dalla scuola. L’utilizzo e il rilascio di sostanze chimiche è stato per decenni gestito in modo tanto incurante e irresponsabile che si è radicata nell’opinione pubblica la convinzione che tutte le sostanze chimiche siano tossiche. In realtà la maggior parte sono innocue e solo alcune sono estremamente tossiche. Invece che richiedere test in vivo su tutto, sarebbe più utile lavorare per avere più dati in tempi rapidi. Tanto più che i test svolti su animali sono spesso talmente invasivi e pesanti che la positività è assicurata, col rischio di osservare effetti che, più che alla tossicità di una sostanza, sono dovuti a sproporzionate condizioni sperimentali o addirittura allo stress degli animali: un inutile spreco di vite animali e di risorse per ottenere risultati non rilevanti per l’uomo.
La richiesta di dati da parte delle autorità è sacrosanta, ma devono essere di rilevante spessore scientifico e significativi per l’uomo.
Dall’altra parte, è ora di far crescere l’opinione pubblica sul concetto che in nessun campo si ha il rischio zero. I rischi ci sono e vanno accuratamente ponderati su solide basi scientifiche, basi che le sperimentazioni su animali non assicurano.