Tutto connesso

Le connessioni ecologiche, nell’ambito degli ecosistemi, garantiscono i flussi di materia e di energia. Hanno perciò un’importanza fondamentale, al pari degli elementi stessi dell’ecosistema, come gli habitat naturali e le specie vegetali o animali. La frammentazione o l’isolamento di porzioni di ecosistema, causati dall’espansione di aree urbanizzate e infrastrutture, compromettono o impediscono le normali relazioni e scambi fra popolamenti animali e vegetali e i loro habitat, indebolendo l’intero sistema. Fenomeni che, se portati all’estremo, ne provocano il collasso. Trascurare il sistema di relazioni ecologiche dei territori porta, da un lato, a creare barriere per le specie animali e vegetali che compromettono il funzionamento dei sistemi naturali, dall’altro, a diffondere inquinanti e agenti di perturbazione in modo difficilmente rimediabile. Un approccio derivato da una cultura antropocentrica che, vista la crisi climatica e ambientale, si sta mostrando perdente. Ne parliamo con Patrizia Menegoni, ricercatrice presso il Dipartimento Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali di ENEA.

Patrizia Menegoni

Perché è importante non dimenticarsi che i sistemi naturali sono interconnessi?
Nessuna specie, nessun individuo vive sola/o è nella relazione che si attua la potenzialità del vivente. Le aree industriali e urbane costituiscono delle barriere ecologiche. A questo si aggiunge il problema delle emissioni, che interessano l’atmosfera, il suolo e il sistema delle acque. Tutti aspetti che richiederebbero una più attenta analisi, monitoraggio e gestione. Le acque superficiali, per esempio, sono veicoli potenti per la diffusione di inquinanti, da quelli più noti a quelli emergenti. Come l’inquinamento da plastiche e microplastiche che riscontriamo ormai in tutti gli ecosistemi del pianeta. Provengono dagli ambienti terrestri, a causa di una pessima gestione dei rifiuti solidi urbani, e dai reflui fognari. Ignare di un sempre più evidente “buco legislativo”, immense quantità di microplastiche, dalle nostre lavatrici e attraverso le reti fognarie e i sistemi di depurazione, arrivano nei fiumi, intercettano territori, raggiungono le foci e di lì il mare. L’incuria con cui si immettono sostanze nell’ambiente porta a percepire i problemi quando i danni diventano ingenti, ma a quel punto non è detto che siano rimediabili.

Il rischio connesso alla diffusione delle plastiche nell’ambiente è stato segnalato dagli scienziati già dagli anni ’70…
Ma solo di recente si è iniziato ad affrontare la questione con normative specifiche, ad esempio quella sugli oggetti plastici usa e getta e sulle microplastiche nei cosmetici. Il problema non sta nelle plastiche, ma nella gestione dei rifiuti e nell’aver definito concetti quali quello dell’usa e getta, del tutto assenti in natura. Ad esempio i microgranuli di plastica di molti cosmetici, scrub, dentifrici, una volta terminata la loro azione ripulente, finiscono negli scarichi fognari e insieme a tutte le microplastiche secondarie nelle acque entrando in contatto con habitat e specie per finire spesso sui nostri piatti. Dobbiamo vivere con maggiore responsabilità le opportunità generate da questi materiali: troviamo microplastiche nella placenta umana e nelle feci dei neonati. Questo per dire che il sistema produttivo non può non curare le conseguenze del fine vita dei prodotti che immette sul mercato e le  emissioni nell’ambiente che il ciclo produce. È necessario attivare un atteggiamento etico al di là dei confini normativi: è a tutti evidente la rincorsa a normare questioni che una progressione tecnologica veloce come quella attuale produce, con le conseguenze ambientali spesso non prevedibili e misurabili.

La frammentazione degli ecosistemi è un altro problema legato alla scarsa consapevolezza del valore ecologico del territorio, come ripristinarne la continuità?
Sarebbe importante riflettere su cosa è fondamentale non fare: rimuovere porzioni di ecosistema, desertificare il territorio, tagliare alberi, eliminare le foreste: al punto in cui siamo, sono azioni non compensabili. Realizzare corridoi verdi in relazione ad aree industriali è certo utile, ma è bene rendersi conto che si tratta di mitigazioni, da realizzarsi a partire da una conoscenza approfondita degli ecosistemi per avere un ruolo di parziale ripristino della connettività ecologica.
Questo problema non appartiene solo agli ambienti industriali ma anche a quelli urbani, anch’essi sviluppati senza attenzione al loro inserimento ecologico e paesistico, perché c’è una forte tara culturale di percezione del ruolo delle comunità umane rispetto ai territori.
Anche le piante e il sistema delle comunità vegetali vengono tendenzialmente percepiti come poco più che un complemento di arredo, un pantone verde indistinto che incornicia parchi e giardini delle città, ignorando il ruolo che ogni singola specie, erbacea, arbustiva o arborea, svolge nella comunità, contribuendo a generare equilibri che cambiano nel tempo verso forme via via più stabili e mature. Emblematica è la leggerezza con cui alberi di molti anni vengano ritenuti “a fine vita” e rimossi, visione che non tiene conto della complessità che viene azzerata eliminando una pianta matura, che non può essere sostituita, nelle sue funzioni, dal giovane albero messo a dimora in sua vece. Con questo, non nego l’importanza di creare corridoi di piante, che se ben fatti possono avere un ruolo ecologico, ma intendo dire che piantare alberi solo per servizio, perché fissano CO2, catturano metalli pesanti, cedono ossigeno (e senza dubbio lo fanno), è decisamente riduttivo. L’idea di poter compensare porta con sé una sorta di deresponsabilizzazione, che continua ad alimentare la cultura prevalente nelle nostre comunità rendendo ogni giorno più evidente il problema contemporaneo della condizione umana nella natura. Oggi la priorità è preservare il territorio esistente da ulteriore degrado, emanciparci dall’antropocentrismo che pone tutte le specie non umane a servizio dell’umano, invece continuiamo a perdere territori, specie, relazioni con gli utilizzi più insensati.

Cosa può fare l’industria?
Credo che le industrie, proprio perché finalizzate a un obiettivo di sviluppo specifico, possano e debbano contribuire alla diffusione di un pensiero e di una differente cultura. C’è infatti una urgenza di cambiare il modo di vedere le cose e questo avverrà solo costruendo cultura e diffondendo conoscenza sulle conseguenze di certo tipo di attività all’interno dell’ecosistema. A questo scopo è importante una collaborazione fra industria ed enti di ricerca anche nella divulgazione e nella comunicazione scientifica. Ci sono anche finanziamenti per iniziative culturali, accessibili anche all’industria.

Relazione fra industria ed enti di ricerca: quale è l’esperienza di ENEA?
ENEA è un ente che opera in diversi ambiti scientifici e tecnologici fornendo collaborazioni anche alle imprese per potenziare la loro crescita e la sostenibilità dei loro processi. Nel mio ambito di studio, l’interazione fra ecosistemi e sistema antropico, ho lavorato sulla Rete Natura 2000 in particolare nella regione Basilicata, indagando gli impatti delle aree produttive sui Siti di Interesse Comunitario (SIC), aree di pregio naturalistico di rilevanza sovranazionale. Questo lavoro, realizzato in un team multidisciplinare con una cabina di regia di 12 enti di ricerca e una rete di oltre 150 ricercatori sul campo, ha portato all’attivazione delle Zone Speciali di Conservazione (ZSC), che è la fase attuativa del programma UE Rete Natura 2000. Il risultato è stato una mappatura di estremo dettaglio delle pressioni e impatti che i siti produttivi esercitavano nella relazione con i SIC, individuando le misure di conservazione, che la Regione si è impegnata ad attuare. L’aspetto interessante di questi processi è attivare un certo metodo e un certo regime di tutela a scala regionale, con un intero territorio che lavora in una determinata direzione. Si tratta di processi partecipati, in cui anche gli attori produttivi vengono informati dei risultati del processo e, spesso, coinvolti come parti attive. Progetti europei Life vedono spesso imprese, istituti di ricerca, PA e stakeholder collaborare per la conservazione della natura. Sono iniziative importanti, che permettono al mondo produttivo di diventare attore protagonista e superare la storica diffidenza a impegnarsi per la salvaguardia del patrimonio naturale.

L’approccio al territorio e alle risorse dovrà cambiare…
La nostra cultura continua a considerare le specie viventi, gli ambienti, le condizioni di equilibrio come funzionali a noi, tanto è vero che abbiamo creato il concetto di servizi ecosistemici, come se il patrimonio naturale fosse importante in quanto fornisce servizi alla nostra esistenza e alla nostra economia; e se qualche specie non rientrasse in questo comparto? Questa è una concezione deviata, irriducibilmente antropocentrica da cui la cultura occidentale non riesce a uscire. Ne deriva una gestione della società non corretta e neanche funzionale: il malessere dilaga nelle nostre società, pur pingui e ricche, e le diseguaglianze sono sotto gli occhi di tutti, oltre al fatto che la biodiversità umana è stata spazzata via e ancora oggi l’esistenza delle poche popolazioni native sopravvissute viene minacciata. È stata fatta tabula rasa della varietà dei modi di vivere umani, sostituiti da un modello unico che sta compromettendo la vita stessa del pianeta. Nel sud del mondo, la comunità scientifica sta mettendo in discussione il sistema di pensiero che alimenta questo modello e, per esempio, da anni evidenzia i limiti di monetizzare il valore ecologico. L’uomo si è posto all’apice di un sistema valoriale da lui creato, inconsapevole di essere solo una delle tante specie del pianeta. Il sistema dei viventi non corrisponde a questa visione e illudersi di poter disporre del pianeta nelle modalità in atto nell’ultimo secolo non porterà certo alla sparizione della vita sulla Terra, ma più probabilmente alla fine di una delle sue specie più giovani, Homo sapiens.