Impatto dei prodotti solari sugli ecosistemi marini

coral reef in Egypt as nice background

L’entrata in vigore, tra il 2020 e il 2021, del divieto di commercializzazione e di utilizzo di protettivi solari contenenti filtri solari come ossibenzone e octinossato alle Hawaii, Palau, US Virgin Islands per proteggere le barriere coralline ha portato alla ribalta la discussione sulla tossicità di queste e altre sostanze di uso cosmetico per gli ambienti marini, a fronte di evidenze riportate nella letteratura scientifica fin dai primi anni 2000.

Cinzia Corinaldesi, che è docente di Ecologia marina all’Università Politecnica delle Marche-Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell’Ambiente ed Urbanistica (SIMAU), ha effettuato numerose ricerche sulle barriere coralline e su altri organismi marini in relazione agli inquinanti ambientali e all’esposizione ad alcuni ingredienti cosmetici.

Diversi filtri solari organici sono sotto accusa per provocare danni agli organismi degli ecosistemi marini: quali sono le sostanze con impatto comprovato e a quali concentrazioni ambientali si evidenzia la loro tossicità?
Dal 2008, quando il mio team di ricerca ha pubblicato uno studio sull’effetto di diversi ingredienti, comunemente utilizzati nei prodotti solari, su reef tropicali del mondo (Danovaro et al. 2008, Environmental Health Perspectives), sono stati pubblicati molti studi sull’effetto dei filtri solari su organismi acquatici con il risultato che in numerosi parchi marini del mondo (e.g., Messico, Palau, Hawaii) è stato bandito l’uso di solari contenenti oxybenzone e ethylhexylmethoxycinnamate (octinoxate). Nello studio del 2008 abbiamo dimostrato che non solo oxybenzone e ethylhexylmethoxycinnamate ma anche 4-methylbenzylidene camphor e conservanti come il butylparaben causano il completo sbiancamento dei coralli a basse concentrazioni, anche di 10 µl per L di acqua di mare.

L’effetto negativo non è solo a carico dei coralli e delle loro alghe simbionti ma anche su altri organismi, dal fitoplancton ai pesci. Ad esempio, in un altro studio, abbiamo testato diverse formule complete di solari e abbiamo trovato che quelli contenenti oxybenzone, homosalate e conservanti provocano un forte impatto sullo sviluppo del riccio di mare causando anomalie negli embrioni e larve (Corinaldesi et al. 2017, Scientific Reports). Anche il butylmethoxydibenzoylmethane (avobenzone) e 2-ethylhexyl 2-cyano-3,3- diphenylacrylate (octocrilene) vengono considerati potenzialmente tossici per la vita acquatica dato che alcuni studi hanno riportato effetti dannosi, ma nei nostri esperimenti sui coralli abbiamo osservato effetti negativi solo nel lungo termine e non evidenti.

Cinzia Corinaldesi

Qual è l’elemento più impattante nelle creme solari? Lo ritroviamo anche in altre cosmesi? 
In realtà non c’è un unico elemento impattante perché all’interno delle creme solari oltre ai filtri UV prima menzionati e ai conservanti come i parabeni ci sono altri ingredienti che possono essere dannosi incluse alcune fragranze e antiossidanti. Inoltre, bisogna considerare anche l’effetto della loro interazione e che la severità dell’impatto può cambiare a seconda dell’organismo considerato e dello stadio di sviluppo. Molti dei composti presenti nelle creme solari sono presenti anche in altri prodotti per la cura personale come creme per il viso, per il make-up e per i capelli.

Anche i filtri inorganici non sono scevri da rischi per la biodiversità marina: quali effetti negativi sono noti?
Sebbene i filtri organici dominino il mercato dei prodotti solari, l’uso di filtri inorganici come ossido di zinco e biossido di titanio sta aumentando perché conferiscono un ampio spettro di protezione contro i raggi UV e altre proprietà favorevoli. Tuttavia anche questi composti una volta rilasciati in acqua possono generare specie reattive dell’ossigeno (ROS) e rilasciare ioni di metalli tossici per gli organismi marini come rivelato da studi condotti da colleghi spagnoli. Inoltre, in una nostra indagine abbiamo scoperto che filtri come il biossido di titanio e l’ossido di zinco sono dannosi per i coralli e le loro alghe simbionti. Le nanoparticelle di biossido di titanio e ossido di zinco sono attese essere più dannose per gli organismi marini (come ricci di mare, crostacei, coralli e microalghe) delle non-nanoparticelle causando danni cellulari, alterazioni del citoscheletro specialmente nelle forme larvali e giovanili perché a causa della loro taglia ultramicroscopica sono trasportate a organi e tessuti. Pertanto l’esposizione a nanoparticelle può portare alla morte di organismi marini. Negli studi che abbiamo condotto è risultato che specialmente le nanoparticelle di ZnO sono dannose per gli organismi marini mentre il TiO2 “coated” e metal doping ha un impatto molto più basso sui coralli.

Nonostante la mole di dati si stia ampliando, ancora una parte del mondo industriale ha perplessità sugli effetti negativi dei filtri solari, in particolare rispetto agli studi eseguiti su organismi marini in laboratorio. Sono dubbi giustificati?
A parte una ovvia giustificazione che potrebbe nascere da un conflitto di interesse da parte del mondo industriale direi che in parte questo dubbio è anche fondato perché negli ultimi anni molte creme solari o altri prodotti cosmetici portano l’etichetta “eco-friendly” o “reef safe” senza però aver effettuato dei test rigorosi e applicabili all’ambiente naturale. Alcuni esperimenti che abbiamo condotto e i cui dati sono stati anche pubblicati dimostrano proprio che alcune marche di creme solari considerate eco-compatibili non lo sono effettivamente.
Tuttavia, vista la mole di letteratura scientifica internazionale (le pubblicazioni subiscono dei referaggi da parte di reviewer anonimi) a disposizione soprattutto sui filtri UV non è possibile ormai negare che questi ingredienti mettano a rischio la vita acquatica, soprattutto se rilasciati in grandi quantità in mare come durante il periodo estivo e nelle zone più turistiche.

Che tipo di dati sono effettivamente mancanti per una completa valutazione dei rischi di queste sostanze?
Secondo la mia opinione manca una connessione tra mondo scientifico e industriale. Un conto è dichiarare attraverso delle pubblicazioni scientifiche che un composto è eco-compatibile, un conto è produrre a livello industriale un’intera formula eco-compatibile. Uno o due ingredienti eco-friendly non bastano per creare un intero prodotto sicuro per l’ambiente. Deve essere seguito un percorso complesso di test multipli utilizzando modelli biologici adeguati.

Per presentarsi con il claim “reef safe”, quale dovrebbe essere il percorso sperimentale per valutare l’impatto ambientale dei prodotti solari?
Per valutare al meglio i rischi di queste sostanze bisognerebbe condurre test su organismi marini appartenenti a livelli trofici differenti e a diversi stadi di sviluppo (generalmente gli stadi di sviluppo precoci sono più sensibili), valutando l’effetto anche nel lungo termine (almeno 72 h) di ingredienti singoli e prodotti completi cercando di riprodurre al massimo le condizioni dell’ambiente naturale.

Quali accorgimenti potrebbero migliorare l’impatto dei prodotti solari? Su qual
i aspetti l’industria si potrebbe impegnare per arrivare a formule davvero sostenibili?

A mio avviso, il mondo dell’industria cosmetica sta da poco tempo iniziando a capire che è necessario avere cura anche dell’ambiente intorno a noi. Negare l’importanza degli effetti negativi dei prodotti per la cura personale sull’ambiente potrebbe essere controproducente anche per il mercato perché nei consumatori sta crescendo sempre più la consapevolezza dei problemi ambientali. Purtroppo, per ovviare a questo problema, negli ultimi anni sono stati immessi nel mercato prodotti che io non esito a definire “fake”. Per fare alcuni esempi, sempre più prodotti sono definiti naturali quando solo 2 ingredienti nell’intera formula con oltre 10 composti lo sono effettivamente. Inoltre, ‘naturale’ non significa che non provochi effetti biologici negativi. Altri prodotti si autoproclamano ‘reef safe’ facendo test su organismi di acqua dolce e non su ecosistemi tropicali, oppure si auto-definiscono eco-friendly perché non contenenti filtri UV noti, dichiarati come dannosi, ma contengono comunque altri ingredienti deleteri. Per riuscire a superare questi limiti, il mio suggerimento alle industrie è di avvalersi, oltre che di esperti di cosmetica, cosmeceutica e dermatologi, anche di ecologi e biologi (marini in questo caso) esperti in questo settore di ricerca, in modo da produrre le migliori creme per la protezione della nostra pelle dai raggi UV che però allo stesso tempo siano anche rispettose dell’ambiente marino. Credo che in questo modo i consumatori potrebbero essere incoraggiati a comprare un prodotto sapendo di non aver la responsabilità sulle spalle di aver contribuito all’inquinamento del mare, e credo che anche l’industria ci guadagnerebbe molto.