Ripensare l’economia dopo il coronavirus

Abbiamo raccolto da due docenti di formazione e interessi di ricerca differenti alcune riflessioni a caldo su come vedono l’uscita dal lockdown. Per entrambi il dopo-pandemia potrebbe essere l’occasione per riconsiderare la sostenibilità ponendo i problemi legati al cambiamento climatico e al degrado ambientale al primo posto dell’agenda economica. La parola a Francesco Bertolini, docente di Public policies and management presso SDA Bocconi, e a Paolo Tamborrini, Coordinatore presso il Politecnico di Torino del corso di studi in Design, Communication manager del PoliTO GREEN TEAM e fondatore dell’Innovation Design Lab.

 

Francesco Bertolini

Le conseguenze della pandemia di covid-19 porteranno alla necessità di intraprendere rapide strategie di ripresa economica: c’è il rischio di dimenticarsi della questione ambientale, Professor Bertolini?
Non pochi studiosi e commentatori degli ambienti scientifici stanno considerando che, essendo questo virus uno spillover dall’animale selvatico all’uomo, direttamente o attraverso animali domestici come vettori intermedi, il rischio di future virosi potenzialmente pandemiche risulta legato al degrado degli ecosistemi: il formarsi di nuovi virus patogeni e il conseguente sciame virale sembra collegato a un ambiente pregiudicato e alla perturbazione degli equilibri naturali. Se questa consapevolezza si diffonderà fra i cittadini e fra i decisori politici potrebbe svilupparsi una rinnovata attenzione alla sostenibilità e potremmo assistere al rilancio del tema ambientale. Questo rappresenta una straordinaria opportunità per mutare il corso economico verso modelli più sostenibili, a partire dall’economia circolare.

Quali dovrebbero essere i pilastri per pensare a un modello più sostenibile?
Il modello economico non potrà più essere quello dei beni-servizi-prodotti, ma l’alternativa non potrà fondarsi solo sulla decarbonizzazione: non basterebbe, ciò che serve è una visione più complessiva che modifichi i valori e i comportamenti quotidiani, mettendo al centro la questione ambientale. Il primo passo dovrebbe essere cambiare gli indicatori: il PIL, su cui si fondano trattati, rating e vincoli internazionali, sta portando a distorsioni e disuguaglianze disastrose quanto note a tutti, perché se ne parla da trent’anni.
E se il modello lineare attuale non è sostenibile, il modello circolare al momento non è realizzabile al 100%, almeno non per tutti i materiali. Peraltro, siamo molto lontani dal chiudere il cerchio visto che attualmente l’indice di circolarità è calcolato intorno al 7%. Molta strada abbiamo quindi da fare e rimane prioritario riequilibrare le valutazioni, superando il PIL, e riconoscendo un valore, ad esempio, alla bellezza dei beni artistici, paesaggistici e ambientali, così come alla qualità di vita delle persone e alla biodiversità ecc. Su queste basi dovrebbe essere costruito un modello sostitutivo di quello attuale, attraverso una classe dirigente e governanti in grado di raccogliere questa sfida. Una consapevolezza che anche il mondo delle imprese dovrebbe raggiungere, perché il modello della crescita infinita è destinato a implodere. Ciò che è a rischio non è la sopravvivenza del pianeta, ma della specie umana, come unica specie priva di qualsiasi equilibrio rispetto alle risorse.

A quale livello dovrebbe avvenire l’innesco di un sistema differente?
Il primo livello è quello europeo. Oggi l’economia è così strettamente interconnessa in un sistema globale a cui si intreccia la vita quotidiana del singolo, che qualsiasi crisi provoca ripercussioni ovunque e su ciascuno. Per questo, una economia diversa da quella della crescita deve partire a livello di macro aree. L’Europa è una di queste.
Nel momento in cui l’Unione Europea fosse finalmente lungimirante da capire che, con una vera politica unitaria per promuovere un’economia più sostenibile, potrebbe giocare un ruolo di traino a livello globale, sarebbe un cambio epocale. A maggior ragione perché già abbiamo un sistema, una cultura e una legislazione particolarmente orientati alla tutela sociale e ambientale, su cui peraltro il tessuto industriale ha dovuto tanto investire. Questo potrebbe essere un prerequisito formidabile se l’UE assumesse un ruolo di leadership nella svolta globale. Il tema dei 17 sustainable development goals (SDG), dovrebbe essere il registro strategico al cui interno coniugare il tema economico, quello sociale e dei diritti (alla salute, all’istruzione, ecc.), il tema ambientale, della ricerca e così via. Tutti insieme questi elementi dovrebbero concorrere a costruire un’agenda di sostenibilità.
Per il nostro Paese, sarà cruciale la definizione di una strategia generale, che permetta un rilancio economico fondato sulla ricerca di soluzioni innovative per ridurre gli impatti sull’ambiente e che al contempo sappia mettersi nelle condizioni di gestire eventuali emergenze, tra cui quelle sanitarie, in modo pianificato, evitando la gestione scomposta e improvvisata vista per l’attuale epidemia, che abbiamo pagato cara. Serve quindi un disegno che valorizzi i nostri molti asset (creatività, cultura, patrimonio ambientale) per costruire un Paese in cui l’economia, la sanità, la ricerca, l’ambiente e il territorio, ecc. funzionino senza dover inseguire l’emergenza del momento.

Come potrebbe attivarsi il settore cosmetico?
Nell’approcciare il tema ambientale, l’industria cosmetica ha il vantaggio di poter legare il concetto di bellezza della pelle, ormai inteso come benessere e salute, a un’idea di salute dell’ambiente: questo passaggio è facilitato dal fatto che è sempre più diffusa la cultura che un ambiente malato produce persone non sane. È ciò che stanno facendo i grandi player multinazionali, anche se al momento gli investimenti reali sono piuttosto ridotti rispetto ai fatturati di questi attori. Infatti ancora la tendenza, soprattutto per le grandi corporation, è seguire gli orientamenti del mercato, e in tanti enormi mercati la sensibilità ambientale è bassa. Sono comunque passi che vanno nella giusta direzione, a cui si aggiungono gli investimenti più decisi di attori più piccoli, che operano in nicchie specifiche, con filiere molto specializzate, proponendo prodotti molto ben costruiti in termini di riduzione dell’impatto ambientale. Esiste certamente un ruolo dell’industria nel farsi portavoce di un cambiamento. Se il tema dell’attenzione al pianeta verrà riposizionato su un asse strategico, come è urgente fare, anche la politica sarà più attiva nel fornire gli strumenti per facilitare il passaggio.

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Paolo Tamborrini

Professor Tamborrini, come vede il rilancio economico dopo questa crisi sanitaria?
Sicuramente questa crisi ha risvegliato molte questioni, anche se non tutti hanno capito che emergenze di questo tipo sono più o meno direttamente collegate dal degrado ambientale. Fino a ieri si pensava ben poco al cambiamento climatico, oggi questa epidemia ha portato un nuovo senso della collettività, percepito tuttavia solo in termini di salute pubblica e non di attenzione alla questione ambientale.
Le aziende comunque avranno maggiore consapevolezza di alcuni aspetti, per esempio lo smartworking: se in precedenza non era stato considerato, oggi si è visto che funziona per il business e che porta benefici ai dipendenti, in termini di life balance, e alla collettività, per la riduzione dell’inquinamento. Su molti altri aspetti vedremo un riequilibrio delle attività.
Anche dal punto di vista dei prodotti, potrebbe essere un’occasione di cambiamento. Fra i grandi brand, che talvolta crescono con politiche poco sostenibili, oggi c’è una più decisa adesione a condotte responsabili; vista la capacità con cui sono in grado di veicolare rapidamente i messaggi, potrebbero creare ricadute positive nella sensibilizzazione del grande pubblico. Molto dipenderà dai singoli, da quanto la paura di nuove epidemie impatterà sui comportamenti o se verrà dimenticata. Per molti è stata una occasione per constatare come e in quale misura il comportamento del singolo possa influenzare la collettività globale.

Si guadagnerà un’ottica più ampia dell’importanza di occuparsi seriamente della parte ambientale?
Forse si raggiungerà quella visione di sistema delle singole azioni che finora è mancata. Purtroppo siamo abituati a processi di innovazione che cambiano radicalmente le abitudini di vita e i consumi trascurando le conseguenze ambientali. La sostenibilità dovrebbe diventare un prerequisito di progetto e non un problema da affrontare dopo. Lo sforzo dovrà essere rivolto ad acquisire una visione di sistema. Questo potrebbe essere facilitato da un elemento generazionale: i giovani sono molto più consapevoli, potremmo definirli “nativi sostenibili”, perché nati in un momento storico in cui fare i conti con lo sfruttamento del pianeta non è più un aspetto opzionale. Nascono molti corsi di laurea focalizzati proprio sulla sostenibilità e sulle scienze collegate, che incontrano enorme interesse fra gli studenti. Vedremo di conseguenza consumatori più sostenibili, ma anche imprenditori e manager più sensibili e più ampiamente formati a fare business ponendo al centro il tema della sostenibilità. È emblematico che si diffondano le b-corp, aziende che hanno nella loro mission l’obiettivo di generare benessere diffuso, oltre che utili. La disciplina del design, da cui discende la progettazione del packaging come di moltissimi prodotti, storicamente frequenta i concetti della sostenibilità fin dagli inizi degli anni ’90: in tal senso credo che avrà un ruolo di traino in questo cambiamento.